lunedì 19 novembre 2007

epifanie di senso

A Te grida il dolore innocente

Mattutino a cura di G. Ravasi su Av

del
17/11/2007
tre nodi
La gioia che dà il mondo è vanità. La aspettiamo con grande desiderio, ma quando arriva, non riusciamo a trattenerla. La tristezza di chi soffre ingiustamente è meglio della gioia di chi ha commesso iniquità. Un'antologia medievale di testi assegna queste parole a s. Agostino, anche se non sono reperibili direttamente nelle opere del celebre vescovo di Ippona a noi giunte. Il filo conduttore è quello della gioia e tre sono quasi i nodi sui quali ci si ferma per una riflessione. Il primo riguarda l'inconsistenza di una felicità troppo facilmente promessa attraverso il successo, il piacere, il benessere. È la gioia mondana che si basa sulle cose. Il famoso poeta inglese George G. Byron diceva: «Non c'è gioia che il mondo possa dare eguale a quella che nega». Detto in altri termini, è più forte la delusione rispetto all'illusione. Ed eccoci subito al secondo nodo del filo della felicità. Essa è come una meteora: appena l'hai afferrata, subito ti sfugge di mano. Anzi, quanto più la tieni stretta, tanto più ti scivola via, quasi come un'anguilla troppo premuta. È una sorta di prova del nostro limite, tant'è vero che la gioia, per essere perfetta, dovrebbe essere infinita e quindi superarci. È per questo che si parla dell'aldilà come di una pace e di una gioia eterna perché allora cadono le frontiere del tempo e dello spazio. Infine, s. Agostino ci mette in guardia contro l'allegria del vincitore. Chi prevarica sugli altri può forse godere, ma non conosce la serenità lieta dell'anima generosa, buona, onesta che ha la coscienza in pace. Tre nodi, dunque, ai quali legare il filo della vera felicità.

(in questo mondo domina la legge della giungla "fare fesso l'altro prima che l'altro faccia fesso te", ma la speranza è portata da chi preferisce subire il male, anziché procurarlo!!! Jo)

e del
16/11/2007
TEORIA E PRATICA
La teoria è quando si sa tutto e non funziona niente. La pratica è quando tutto funziona e nessuno sa il perché. Un giorno chiesero ad Albert Einstein (1879-1955) quale fosse stato il sogno della sua vita. Egli rispose senza esitazione: «Fare lo stagnino». Al di là del paradosso e del gusto di scandalizzare, il celebre scienziato riconosceva una sostanziale inattitudine pratica che a più riprese aveva dichiarato e comprovato. A lui dobbiamo anche la divertente distinzione tra la teoria e la pratica sopra citata che, pur nella sua esagerazione, ha un'anima di verità. Un eccesso di dottrina può rinchiudere in una sorta di limbo, distaccato dalla concretezza della vita. Tuttavia è altrettanto pericolosa una pura e semplice abilità operativa che non si interroga sul significato di certi atti. Non per nulla sono stati non di rado i veri scienziati a porsi le domande morali quando si affrontavano percorsi pericolosi: si pensi solo alle ricerche nucleari e alla bomba atomica col «caso Oppenheimer», il fisico americano «obiettore di coscienza» proprio nei confronti di una tecnica priva di remore etiche. Oppure pensiamo alle attuali investigazioni nell'orizzonte della vita, della genetica, della neurologia, e così via. Lo specialista che è solo un tecnico spesso procede senza porsi gli interrogativi radicali sul suo agire. Detto questo, comunque, dobbiamo essere capaci di trovare un sia pur delicato equilibrio tra teoria e pratica, così da intrecciare alla ricerca la capacità di rendere un beneficio reale all'umanità. Lo studio nella scuola dev'essere rigoroso, ma pronto anche ad approdare all'azione, alla perizia, all'esperienza concreta.