mercoledì 2 maggio 2007

Il maggio della famiglia

Cinque femministe che volevano rivoluzionarla, se non distruggerla, ne riparlano dopo più di trent’anni
di Nicoletta Tiliacos

Tratto da Il Fogliodel 1 maggio 2007

E’ facile, addirittura banale, indicare nel femminismo uno dei grandi indiziati nell’inchiesta sulla “morte della famiglia”, su quell’assassinio tentato, se non realizzato, di cui parlava l’antipsichiatra David Cooper all’inizio degli anni Settanta.

A Marina D’Amelia, Gabriella Pinnarò, Eugenia Roccella, Roberta Tatafiore e Paola Tavella, che sono state femministe, chiediamo oggi, a più di trent’anni dall’epoca dei piccoli gruppi, di riformarne uno estemporaneo per parlare di famiglia: di famiglia simbolica e delle loro famiglie reali. Tutte, negli anni del femminismo, si sono sposate, qualcuna si è separata e quattro di loro hanno avuto figli. Marina D’Amelia e Gabriella Pinnarò insegnano all’Università, la prima storia moderna e la seconda scienza della comunicazione. La prima è studiosa della storia della maternità (il suo ultimo libro è “La mamma”, Laterza), la seconda si è occupata a lungo di mercato del lavoro, con attenzione particolare al tema dell’occupazione femminile. Paola Tavella, Roberta Tatafiore ed Eugenia Rocella sono giornaliste e saggiste. La Roccella, ex radicale, appena ventenne è stata segretaria del Movimento di liberazione della donna, e oggi è uno dei due portavoce del Dies Familiae del 12 maggio. Roberta Tatafiore ha lavorato a “Noi donne”, di cui è stata anche direttrice, e ha pubblicato diversi libri sul mercato del sesso. Paola Tavella, dopo quindici anni al Manifesto e dopo essere stata portavoce di Anna Finocchiaro alle Pari opportunità, scrive oggi su varie testate. Nel 2006, con Alessandra Di Pietro, ha pubblicato “Madri selvagge” (Einaudi Stile libero).

Pinnarò - Ripensando a quegli anni, non mi ricordo, almeno per quanto mi riguarda, di aver professato un odio drastico per la famiglia. Semmai mi opponevo al tipo di famiglia che avevamo ereditato: conservatrice, patriarcale, fissa, mentre intorno tutto cambiava velocemente. Erano gli anni del movimento degli studenti, della critica all’organizzazione del lavoro, dei primi grandi scioperi dopo il miracolo economico, e nasceva il movimento femminista, a Trento. La famiglia rimaneva invece quella di sempre e noi, con un certo delirio di onnipotenza, pensavamo di poterne disegnare un’altra, diversa e migliore, a nostra misura. Ma sono una che si è sposata a diciannove anni, anche se tale era l’imbarazzo per quel matrimonio, fatto in un momento in cui tutti parlavano di libero amore, che non solo non portavo la fede, ma a chi mi chiedeva se ero sposata rispondevo, con l’ansia di ridimensionare la cosa, che sì, lo ero , ma “solo civilmente”.

D’Amelia - Potremmo discutere per giorni sulle caratteristiche del femminismo, su quanto illuminismo, libertinismo, romanticismo c’erano, e ognuno potrebbe dire la sua. Del femminismo mi convinceva tutto ciò che mirava a una diversa qualità del rapporto uomodonna, all’idea che anche gli uomini si potessero prendere cura dell’altro, se ne potessero davvero sentire responsabili. E allora, nel momento in cui chiedi, come noi chiedevamo, una qualità diversa dei rapporti, chiedi pure al padre dei tuoi figli che faccia davvero il padre e si prenda davvero cura di loro, non solo in modo residuale. Erano queste le aspettative nelle nostre “nuove coppie”, da cui naturalmente si generavano elementi conflittuali, quando quelle aspettative le vedevi deluse.

Tatafiore - Se penso al nostro mondo di quegli anni, lo vedo popolato da irregolari. E’ irregolare, infatti, che ci si sposi ma ci si vergogni di dirlo. Ed è irregolare quello che io stessa ho fatto, sposandomi a Londra perché era uno dei paesi, con quelli scandinavi, nei quali non c’era la trascrizione automatica del matrimonio in Italia. Perché l’ho fatto, allora? Ma per far felice mia madre, naturalmente. Poi mi sono separata e ho convissuto per dieci anni con un altro uomo. Non ho voluto figli e non li ho fatti, e per questo mai mi sono sentita davvero “in famiglia”. Perché la famiglia, ne sono convinta, c’è se ci sono i figli. Oggi la vedo svuotata, inconsistente, evanescente. Quella in cui sono nata aveva le sue stravaganze, ma anche le sue regole, a cominciare dal fatto che si mangiava tutti insieme, a pranzo e a cena e la domenica in trattoria. Lo svuotamento della famiglia lo abbiamo in parte provocato anche noi femministe, ma poi ci si è messo di tutto: il mercato del lavoro, i grandi terremoti politici come la fine del comunismo, l’immigrazione. Se ci sono famiglie poco difese sono quelle degli immigrati, totalmente disgregate.

Pinnarò - Aggiungerei il fatto che, all’epoca del femminismo, era evidente la forte ostilità, a sinistra, nei confronti della famiglia e del ruolo che in essa aveva la donna. La quale era forza lavoro gratis, dato che faceva il lavoro di cura, quello che oggi chiameremmo di “supplenza” al welfare, ed era forza lavoro più malleabile, più facilmente licenziabile. Una parte della sinistra teorizzava apertamente che la famiglia, in quanto zattera di salvataggio e camera di compensazione per tutte le contraddizioni che si creano sul mercato del lavoro e nella società, andava eliminata, perché così il conflitto di classe sarebbe finalmente e pienamente esploso. A dirlo, negli anni Settanta, erano sociologi come Marzio Barbagli e Massimo Paci. In un seminario rimasto memorabile all’Istituto Gramsci, nel 1975, in contrasto con la visione di tipo “sovietico” che della famiglia aveva il Pci, un filosofo marxista, Umberto Cerroni, teorizzò che la dissoluzione delle funzioni della famiglia come “comunità domestica di allevamento, sostentamento ed educazione” sarebbe stata auspicabile, perché così si sarebbe privilegiato il “libero svolgimento affettivo”. In questo vedo però una differenza radicale con quello che le donne cominciavano a elaborare.

Roccella - Questo è un aspetto importantissimo. Un libro dell’inizio degli anni Ottanta, “Rifugio in un mondo senza cuore”, di Christopher Lasch, analizzava la “cultura dell’antifamiglia” e metteva in parallelo la socializzazione della produzione e quella della riproduzione. E’ lì il cuore del problema. La famiglia è, oltre che camera di compensazione, anche il primo nucleo di redistribuzione del redditto e delle politiche di solidarietà. Ma è soprattutto camera di compensazione tra individuo e stato, la necessaria cellula anarchica di protezione dell’individuo. Se gli togli la famiglia, l’individuo diventa niente altro che il perfetto consumatore, solo davanti al mercato e allo stato. Il caso di Terri Schiavo mostra l’invasività delle leggi in una zona che doveva rimanere anarchica, di ombra e di mediazione. Sul femminismo assassino della famiglia, direi che non l’ho mai vissuto come tale, ma come uno scombinamento dei rapporti e dei ruoli familiari e sessuali. Quando leggo che in Norvegia o in Svezia ci sono fino al sessanta per cento di madri single, con lo stato che fa da padre, mi chiedo se era davvero ciò che volevamo. Credo proprio di no. Volevamo l’intercambiabilità dei ruoli, la condivisione del lavoro di cura e la sua valorizzazione, ed è la battaglia che abbiamo perso, perché il lavoro di cura resta tuttora svalorizzato. Nel frattempo, abbiamo indebolito, se non vogliamo dire distrutto, la paternità.

D’Amelia - Mi pare invece che, nel senso comune, sia passato il fatto che un padre deve comportarsi in un modo partecipativo.

Roccella - Ma i modelli di virilità diffusi non sono certo modelli paterni. Il lavoro di cura continuiamo a non condividerlo, lo abbiamo semplicemente spostato su altre donne, le immigrate. E’ affare femminile, poco pregiato. Le statistiche dicono che il desiderio di maternità è inalterato da trent’anni, ma nulla ci dicono del desiderio di paternità.

Tavella - Prima di venire qui parlavo proprio di questo con un amico quarantenne, musicista, il quale mi diceva che lui di figli non ne vuole, vista l’esperienza di due componenti del suo gruppo. La donna che si mette con me, diceva, sa che faccio una certa vita e non può chiedermi di stare in casa o di occuparmi del bambino. Questa confessione mi ha dimostrato chiaramente come il disincentivo alla paternità, almeno per quei maschi, sia proprio nella richiesta di condivisione del lavoro di cura, e nel modo in cui cambia il rapporto con le loro donne che diventano madri. Io ho avuto due figli da due uomini diversi. Con il primo non ero sposata, con l’altro sì, poi abbiamo divorziato. In ogni caso, avere gli uomini fuori casa per me è stato molto semplificante. Dal momento che dei figli me ne occupavo io, almeno ho potuto organizzare le cose come volevo. Discuto con i padri, certo, ma sono io a decidere. Non c’è niente da fare, almeno nella mia esperienza. Gli uomini il lavoro di cura non lo condividono, e nelle situazioni in cui li costringi, con incredibili contrattazioni e marchingegni, loro lo odiano talmente tanto che alla fine al letto con te non ci vengono più. Un conto è se ti dicono che, visto che hanno vissuto da soli per anni e sanno caricare la lavatrice, continueranno graziosamente a farlo per te. Ma se, come accade a tante giovani donne che conosco, intraprendi una guerra per ottenere che un giorno sì e uno no sia lui ad alzarsi se il bambino piange o a occuparsi dei piatti, la coppia si divide, perché i maschi non fanno più l’amore con le femmine rivendicative. Magari hanno ragione, perché in quella guerra la donna diventa odiosa, rievoca la parte di sergente che c’è in ogni madre. Detto questo, la mia è una famiglia assai bizzarra. Il padre del mio primo figlio si è messo con un americano che a sua volta ha un figlio adottato, e con questa coppia gay ho un autentico, stretto legame familiare. E poi ho intorno a me un gruppo di amici, che non a caso si autodefiniscono “la family”, e che io sento come famiglia.

D’Amelia - Io, come Roberta, sono dell’idea che la famiglia c’è quando ci sono i figli e magari anche gli anziani. Non per un innamoramento verso le convenzioni, ma perché il piano dell’esperienza che tu fai come uomo e come donna, e il racconto di Paola lo conferma, è completamente diverso. E perché, quando ci sono i figli, entrano in gioco elementi, emozioni, forme di relazione molto diversi. Sentimenti, magari non tutti belli, come l’ira di un disaccordo nella coppia, oppure la rabbia del bambino che non accetta quello che gli vuoi far fare. Non a caso Paola considera con sollievo l’idea di decidere da sola, e l’ho pensato anche io, anche se non l’ho fatto. Perché famiglia è anche imparare a gestire le differenze e la diversa opinione su un singolo problema. Si deve per forza arrivare a un risultato positivo partendo dalla diversità, non si può rompere, ed è uno dei più grandi insegnamenti che la vita familiare ti può dare. Nemmeno io ho statistiche sul desiderio di paternità. Ma vedo finita l’indifferenza dei padri rispetto all’emozione dell’essere tali, anche se magari si manifesta nella forma un po’ patetica di quello che a sessant’anni scopre la sensazione fisica del bambino in braccio. Oggi, semmai, l’intercambiabilità che volevamo è diventata confusione. Sono più i padri che vogliono fare le mamme che i padri che vogliono fare i padri.

Tavella - I figli si fanno meno, secondo me, perché c’è un oscuramento del materno, il cui fenomeno speculare è l’oscuramento del maschile. Viviamo all’acme di tutta l’infelicità che l’emancipazione porta con sé. Ne parla Marina Terragni in un bel libro che sta per uscire, e che s’intitola “La scomparsa delle donne”. Per quanto mi riguarda, per un certo periodo ho fatto uno di quei lavori molto gratificanti che mi tenevano fuori casa tutto il giorno. Al ritorno, trovavo il figlio più piccolo addormentato davanti alla porta d’ingresso, e ho capito che non potevo continuare così. Le donne della mia età sanno che cosa significhi convincersi che per fare ciò che si vuole bisogna smettere di essere donna. Questa lontananza da se stesse, che vedo anche in tante giovani, fa rimandare la maternità. Poi, quando l’orologio biologico segna un’ora tarda, si realizza che la maternità della carne è l’unico luogo in cui puoi ancora affermare il femminile in modo “forte”. E allora ti fecondi artificialmente, parli di diritto al figlio, ti fai fare qualsiasi cosa.

Roccella - Vorrei tornare sul perché, come movimento femminista, non siamo state capaci di dare sufficiente valore al lavoro di cura. Mi colpì, durante un dibattito televisivo, una signora nigeriana che si stupiva perché noi lasciamo in mani estranee le cose “più preziose”, diceva così, il tuo genitore che sta morendo e i tuoi bambini. Qualcosa di prezioso ci sta sfuggendo, ma se non gli diamo valore noi, come possiamo pretendere che glielo diano gli uomini? Credo che questo dipenda da una mancanza iniziale dell’emancipazionismo, che il femminismo non ha saputo compensare. L’idea dei diritti dell’individuo non fa i conti con le donne, perché individuo è “ciò che non si divide”, mentre la donna per definizione è uno che diventa o ha la potenzialità di diventare due. Il concetto di cittadinanza e il lavoro sono stati costruiti sul corpo che non genera, e nell’agone politico hanno vinto il femminismo di stato e lo stato-padre nordeuropeo. A Roberta che non apprezza la difesa della “vecchia” famiglia, vorrei dire invece di non sottovalutare il problema della rivoluzione antropologica portata dalla tecnoscienza. Si sta tentando di ridisegnare l’umano a partire da un azzeramento dell’esperienza e di tutte le radici simboliche, storiche, corporee sperimentate in secoli e secoli. Difendere la famiglia, per me, significa difendere il luogo in cui questa esperienza, e in particolare l’esperienza femminile del materno, si esprime.