giovedì 24 maggio 2007

La tua vita ha un senso o non ha senso?

E' facile uscirsene con delle battute, ma se non rispondi a questa domanda rischi di giocarti la cosa più unica al mondo che hai: la TUA vita!
Si può non pensarci per parecchio tempo, ma quando ti ritrovi in uno dei corridoi di uscita, malattia o vecchiaia, che fai? Te la prendi con chi? Con Dio che non doveva farti questo? E perchè? Con il Papa che non ti ha avvisato?
La vita umana sin dall'antichità è stata paragonata all'arco di una giornata: all'alba ti riempie di stupore, come un neonato; nel meriggio è nel pieno della sua luce, come la giovinezza è il massimo del vigore; il tramonto è uno spettacolo struggentemente poetico, come le perle di saggezza di alcuni anziani.
Purtroppo non di tutti. Come lo stupore. Eppure non c'è mai stata un'alba o un tramonto uguale ad un altro, ma sei tu che non ti meravigli più. Vedi solo quello che non va secondo i tuoi piani e ti arrabbi. Eppure se consideri che sono solo pochi giorni, ma non ci pensi ancora, non vuoi pensarci...
Ok l'Eterno ha tempo e ti aspetta, ma a te quanto tempo rimane? Non serve disperarsi, ma considerare quanto è prezioso il tempo. Ma per fare che? Denaro? Il tempo è denaro?
Con tutto il denaro che puoi guadagnare non puoi comprarti altro tempo, quindi è MOLTO più prezioso del denaro!
Accetto volentieri le vostre riflessioni anche via chat, al telefono o faccia a faccia.
Non si tratta di insegnare niente a nessuno, ma di condividere esperienze personali.

lunedì 21 maggio 2007

Pina

E' già passato quasi un anno dal termine della tua corsa. Me lo ripetevi sempre più spesso: "Ho terminato la corsa". Ti preoccupavi più degli altri che di te. Volevi prepararmi e non sapevi che avresti varcato dopo undici anni, ma per l'ultima volta, la soglia della tua amata Chiesa Madonna di Fatima proprio il giorno dei santi Pietro e Paolo, quando la liturgia prevede la lettura dove san Paolo dice: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede" (2Tm 4,7). Conservare la fede in un letto di atroci dolori: questa è stata la tua buona battaglia! E con che PACE, serenità e mitezza hai accettato la tua immobilità, tu donna attivissima. Non c'è per me un argomento più convincente dell'AMORE di Dio! Me lo hai insegnato a parole e soprattutto con la vita. Quando gridavi per gli atroci dolori, una volta in piena crisi di fede nell'assistere il tuo corpo straziato, ti ho chiesto: "Mamma, dov'è Dio?" e tu: "E' Lui a darmi la forza!".
Ho avuto una benedizione ad averti per alcuni periodi a casa. Parlavamo di tante cose, persino di eutanasia ed avrei voluto mostrare al mondo che GIOIA sprigionava dal tuo volto e come Dio non ci dà prove superiori alle nostre forze (lo avevo sperimentato con il mio cancro e i 5 cesarei da fifona quale sono). Adesso sono vinta dall'emozione...mi manchi. Lo so, sei qui accanto a me più attiva di prima, insieme a Rita e Rosalia. Pregate per noi con Gesù e Maria.

NON SONO MORTI

Mi scandalizza il fatto di come i cristiani parlano dei loro defunti. Li chiamano morti; non sono stati capaci di rinnovare il loro vocabolario umano su un punto che tuttavia tocca i doni essenziali della fede.
Morti! Si va ad assistere ad una messa per i morti! Si va al cimitero a portare i fiori ai morti, si prega per i morti! Come se essi non fossero miliardi di volte più vivi di noi! Come se la verità fondamentale annunciata nel Prefazio della Messa per i defunti "vita mutatur, non tollitur" (la vita è cambiata, non è tolta), fosse una verità morta, incapace di trasformare il modo comune di parlare. La morte non è una "invenzione degli impresari di pompe funebri". Si può usare il termine "morto" sui registri di stato civile, o della polizia, il cui vocabolario non è quello della verità, ma delle apparenze. Coloro che hanno lasciato questa terra per entrare nell'altro mondo NON SONO MORTI:
- se sono in cielo vedono Dio, sono i vivi per eccellenza;
- se sono in purgatorio hanno la certezza che vedranno Dio, e per l'amore purissimo e ardente col quale accettano e benedicono le sofferenze, sono molto più vivi di noi;
- se sono all'inferno, nel baratro della seconda morte, sono dei vivi perversi e puniti, non sono dei morti. Avendo maledetto Dio e la vita si sono maledetti da sé; si pascono della propria superbia e della propria rabbia. 
(Jacques Maritain)


Cosa è il morire

Me ne sto sulla riva del mare, una nave apre le vele alla brezza del mattino e parte per l'oceano.
E' uno spettacolo di rara bellezza e io rimango ad osservarla fino a che svanisce all'orizzonte e qualcuno accanto a me dice: "E' andata!".
Andata! Dove? E' sparita dalla mia vista: questo è tutto.
Nei suoi alberi, nella carena e nei pennoni essa è ancora grande come quando la vedevo, e come allora è in grado di portare a destinazione il suo carico di esseri viventi.
Che le sue misure si riducano fino a sparire del tutto è qualcosa che riguarda me, non lei, e proprio nel momento in cui qualcuno accanto a me dice, "E' andata!" ci sono altri che stanno scrutando il suo arrivo, e altri voci levano un grido di gioia: "Eccola che arriva!".

E questo è il morire. (Bishop Brent)


lunedì 7 maggio 2007

intervista a Claudia Koll

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un esempio di genio maschile

Savino Pezzotta Nato a Bergamo il 25 dicembre del 1943, a soli dodici anni, Savino Pezzotta incontra il mondo del lavoro: fa l’apprendista operaio meccanico in un’azienda del suo paese, Scanzorosciate. Come molti ragazzi, in quegli anni è costretto a lasciare la scuola, ma non smette mai di leggere e studiare. Intorno ai venticinque anni supera da privatista l’esame di licenza media.

Nel 1963 si iscrive alla CISL, e nel 1970 viene eletto membro di Commissione Interna e, poi, delegato del Consiglio di Fabbrica della Reggiani S.p.A. di Bergamo, dove lavorava come operaio tessile fin dal 1959. La forte motivazione e le battaglie sindacali portate avanti in quegli anni nel settore dell’industria, lo portarono a raggiungere il vertice della Federazione Provinciale dei Tessili della Cisl.
Attento ai progetti di cooperazione, contribuisce a realizzare, nell’ambito del settore tessile, diverse associazioni di produzione e di lavoro.

Sposato dal 1977 ha due figli di 26 e 29 anni. Nel 1987 viene eletto Segretario generale dell’Unione Territoriale della Cisl di Bergamo, incarico che ricopre fino al 1993, quando gli venne affidata la conduzione dell’Unione Sindacale Regionale della Lombardia. La grande passione per il sindacato e l’impegno nel sociale, lo portano in quegli anni a ricoprire a l’incarico di Presidente della Comunità dei Sindacati delle Regioni delle Alpi Centrali (ARGE-ALP).

Nel dicembre del 1998, entra a far parte della Segreteria Confederale della Cisl, dove in seguito assume le funzioni di Vicario. Consigliere CNEL dall'ottobre 1999, il 4 dicembre del 2000 viene eletto Segretario Generale della Cisl, incarico che gli viene riconfermato, con il più ampio consenso di voti, dal Primo Consiglio Generale della Cisl, sia dopo il XIV Congresso del Giugno 2001 che dopo il XV Congresso del luglio 2005. Fra gli altri incarichi, ha ricoperto anche il ruolo di vice-presidente della Cisl Internazionale.

Il 27 aprile del 2006 ha rassegnato le dimissioni da Segretario Generale. Attualmente è presidente della Fondazione per il Sud; componente del CDA della Sesaab di Bergamo editrice de "L'Eco di Bergamo", de "La Provincia" di Como, Lecco e Sondrio. Continua ad interessarsi attivamente di sociale, di politica, di pace e di cooperazione internazionale, con una particolare attenzione all'Africa.Tra i promotori di Retinopera, ha partecipato a Palermo nel 1996 al III° Convegno Ecclesiale Nazionale, e come relatore a Bologna nel 2004 alla 44^ Settimana Sociale dei cattolici italiana e a Verona nel 2006 al IV Convegno Ecclesiale Nazionale.
Lo scorso 24 febbraio il Santo Padre Benedetto XVI lo ha nominato Membro del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.

un esempio di genio femminile

Eugenia Roccella Giornalista (editorialista di Avvenire e collaboratrice del Foglio e del Giornale) e saggista, ha una biografia molto particolare: il padre, Franco, è stato tra i fondatori del partito radicale, grande amico di Marco Pannella, e deputato radicale; la madre, Wanda Raheli, è stata un’affermata artista.

Ma Eugenia, figlia unica, con questo ambiente intellettuale radicale è venuta in contatto più tardi, perché ha vissuto l’infanzia in un piccolo paese siciliano, con i nonni e gli zii, a contatto con una cultura “matriarcale” che riconosceva ed esaltava l’autorevolezza femminile, ma solo all’interno dello spaziodomestico: “vedevo che il calore, la capacità e l’enorme forza delle donne non uscivano dai confini del privato”, ha detto in un’intervista. Ed è stata proprio una zia siciliana a farla battezzare, a 5 anni, prima che lasciasse la casa dei nonni per raggiungere i genitori a Roma.

La sua educazione, successivamente, è stata fortemente impregnata di laicismo, e il suo impegno politico in ambito radicale è stato molto precoce: nei primi anni Settanta, giovanissima, è stata leader del Movimento di Liberazione della Donna (Mld), con cui ha condotto tutte le battaglie del movimento femminista di quel periodo storico, dal divorzio all’aborto, dalla violenza contro le donne alle pari opportunità sul lavoro. Campagne politiche condivise con la madre, pure femminista, che esprimeva la sua militanza culturale e politica anche nei quadri che dipingeva. Ma, accanto alla militanza politica, ha sempre coltivato interessi letterari: laureata in Lettere, è dottore di ricerca in italianistica, e si è occupata di letteratura italiana contemporanea, in particolare della narrativa di Raffaele La Capria, e di letteratura femminile. Si è sposata molto giovane, nel ’76, e ha due figli. Sia la sua esperienza di madre che le malattie dei genitori, che le richiesero anni di cura amorosa - nel 1981 Wanda entrò improvvisamente in coma a causa di un aneurisma; si salvò, ma per due anni dovette reimparare i più elementari gesti dell’esistenza, e anche il padre, scomparso nel ’92, si era poi ammalato - la spinsero fuori della politica.
Dopo aver lasciato il Movimento di Liberazione della Donna nel ’77, era entrata infatti nel Partito radicale come membro della segreteria, affiancando Francesco Rutelli, allora segretario nazionale. Scelse anche di ridurre l’impegno professionale, preferendo soluzioni che le permettessero di allevare i figli e di accudire i genitori. In quegli anni ha scritto sceneggiature radiofoniche, e ha lavorato con contratti a termine in Rai; nel ’94 è entrata nel comitato di direzione del bimestrale di cultura politica Ideazione.Nel distacco dall’impegno politico, pur non perdendo i contatti con i movimenti internazionali delle donne, ha avviato un personale bilancio critico dell’esperienza femminista, che l’ha portata su posizioni di difesa della dimensione materna come costitutiva dell’identità femminile e di cautela nei confronti delle trasformazioni che le biotecnologie introducono nella vita quotidiana. Ha quindi sostenuto con interventi pubblici e articoli la scelta astensionista nel referendum sulla legge per la procreazione assistita.
Da quel momento si è impegnata in modo sempre più attivo sui cosiddetti temi “eticamente sensibili”, fondando “Safe”, un comitato per la salute femminile, e schierandosi contro la selezione genetica, l’eutanasia, l’espropriazione tecnoscientifica della maternità.
Ha scritto tra l’altro:
“La letteratura rosa”, Editori riuniti, 1998
“Dopo il femminismo” Ideazione editrice, 2001
“Contro il cristianesimo. L’Onu e l’Unione europea come nuova ideologia”, con L. Scaraffia, Piemme,
2005
“La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola Ru486”, con Assuntina Morresi, ed. Franco Angeli 2006
Insieme a Lucetta Scaraffia ha anche curato “Italiane. Dizionario biografico delle donne italiane dall’Unità ad oggi”, edito dalla Presidenza del Consiglio e Dipartimento per le Pari Opportunità nel 2003.

venerdì 4 maggio 2007

ANDREA: 10 FRATELLI E UN SOGNO... ANDARE AL FAMILY DAY

Vorrebbero esserci anche loro, a Roma, il 12 maggio. Tutti e 13 insieme. Mamma e papà e 11 figli, a far conoscere all’Italia la loro famiglia fuori misura. «Una famiglia dove non c’è mai silenzio, dove la lavatrice funziona sempre, la lavastoviglie è carica dalla mattina alla sera», dove «la tavola della cucina sembra quella di un ristorante»; così si descrive Andrea, il grande di casa con i suoi 16 anni, in una email che è arrivata in redazione ad Avvenire. Una missiva scritta una sera al computer all’insaputa di mamma Alessandra e papà Ferruccio, nella mansarda della villetta a schiera che Andrea condivide con 3 dei suoi fratelli. Mi piacciono i vostri articoli sulla famiglia – scrive in sostanza Andrea. Belle parole, davvero: però la mia famiglia extralarge, in cui tutti si amano e si incoraggiano, nessuno la aiuta. «Non arriviamo nemmeno alla seconda settimana del mese, noi che siamo dimenticati da tutti, noi che ora è due mesi che non paghiamo la rata del mutuo e che presto ci ritroveremo senza casa grazie alle tante promesse non mantenute», racconta Andrea.

E lo ripete un po’ timido, accogliendo l’ospite nel bell’appartamento, spazioso e luminoso, nella campagna di Veggiano, 15 chilometri fuori Padova: vorrei andare a Roma perché sono orgoglioso della mia famiglia, di noi 11 che «non vestiamo griffati, calcio e divertimenti neppure sappiamo cosa siano», che aspettiamo la sera per accogliere il papà che torna dal lavoro col camion. Però anche per dire: possibile che una famiglia così sia ignorata da tutti quando va bene e dileggiata quando va male? «Be’, la gente a cui chiedo aiuto, assistenti sociali, assessori o quant’altro, mi guardano col sorrisetto stupido e mi dicono: chi ve l’ha fatto fare, di far nascere tutti questi figli, se poi non riuscite ad arrivare a fine mese?», riflette mamma Alessandra, 35 anni, nel salotto che è tutto un brulicare di teste brune, di gambe e di braccia infantili. «Però non mi sembra un buon ragionamento: io e mio marito volevamo una grande famiglia e i figli sono venuti, li amiamo uno ad uno e li rifarei tutti, dal primo all’ultimo. Certo che i figli sono responsabilità mia e di mio marito, ma credo che siano anche una ricchezza per tutta la società. Non ce lo ripetono sempre, i politici, che siamo in piena crisi demografica?», continua. Alle pareti della casa, pulita e ordinata, niente quadri, solo fotografie di tutti loro: Andrea (16 anni), Alessio (14), Giorgia (10), Giulio (8), Veronica e Sabrina (6), Alberto e Alessandra (5), Edoardo (3), Tommaso (20 mesi) e Samuele (7 mesi).

Le promesse non mantenute, scriveva Andrea, che frequenta come Alessio una scuola per cuochi e ora intrattiene i fratelli stendendo l’impasto per le tagliatelle. Il buono-bebé di mille euro, ad esempio, per tutti i bambini nati del 2006. Si dà il caso che l’ultimo dei Calò sia nato proprio l’anno scorso, ma l’assegno non si è ancora affacciato all’orizzonte. Oppure, per fare un altro esempio, il contributo alle spese scolastiche per il 2005-2006: mai arrivato. Possibile che il Comune non abbia un fondo per sostenere il pagamento del mutuo in caso di difficoltà (oltretutto, la banca che l’ha concesso è arrivata dopo 15 no: come fidarsi di una famiglia con tanti figli e una sola busta paga)? Possibile. Possibile che non sia prevista un’integrazione al reddito per pagare bollette, assicurazioni o spese straordinarie? Possibile.
Possibile che i Calò abbiano scritto a una nota marca di tortellini per chiedere un aiuto e per tutta risposta abbiano ricevuto buoni sconto per un totale di 5 euro? Possibile. Possibile che una celebre parlamentare di destra abbia assicurato alla famiglia un sostegno economico attraverso una raccolta fondi e poi dopo aver convocato i Calò al gran completo al Caffè Pedrocchi di Padova se ne sia andata di soppiatto senza nemmeno salutare? Possibile. «L’unico aiuto concreto – racconta Alessandra – ci viene dall’Oviesse, che ci rifornisce di vestiti ad ogni cambio di stagione». Mille grazie, davvero. Ma ci sono tanti altri bisogni.
Papà Ferruccio, 44 anni, fa quel che può, ha un buon stipendio, ma se per qualche motivo capita che non può guidare il camion, la busta paga si riduce drasticamente. «Parlano dei Dico e io rispetto la libertà di tutti – riflette Ferruccio –. Ma in tutta onestà mi sembra che il futuro non siano le unioni di fatto. Il futuro sono le famiglie, i figli. Il futuro siamo noi. Eppure, per le famiglie numerose non c’è nessun aiuto». Se lo stipendio scende, le spese quotidiane, quelle, non si riducono. Montagne di sapone in polvere per lavatrice sono accatastate in mansarda, frutto di un acquisto in stock. Viene la vertigine, a pensare ai chili di pasta che bollono in pentola ogni giorno, alle bistecche a rosolare tutte le sere, senza contare la frutta e la verdura... E il lavoro necessario a riordinare i due bagni, le tre stanze da letto e la mansarda, a rifare i quattro letti a castello e le tre culle. E la pazienza ogni sera di controllare che lo zaino di ciascuno sia a posto, preparare i vestiti, spolverare 22 scarpine... Ma poi la vertigine passa, ad ascoltare ancora le parole di Andrea: «Alle feste tra amici, ai locali alla moda, preferiamo le chiassose cene in famiglia, le lunghe code per la doccia, le litigate per i programmi tv, le grandi risate per i nostri pigiama party... Cari politici, la mia famiglia è questa. E a tutti scrivo che undici... per ora è il nostro numero, undici sono i figli che i miei cercano di tirare su. E undici è il numero di volte in cui ogni giorno ringrazio il cielo che esistano cose come la famiglia».

mercoledì 2 maggio 2007

Il maggio della famiglia

Cinque femministe che volevano rivoluzionarla, se non distruggerla, ne riparlano dopo più di trent’anni
di Nicoletta Tiliacos

Tratto da Il Fogliodel 1 maggio 2007

E’ facile, addirittura banale, indicare nel femminismo uno dei grandi indiziati nell’inchiesta sulla “morte della famiglia”, su quell’assassinio tentato, se non realizzato, di cui parlava l’antipsichiatra David Cooper all’inizio degli anni Settanta.

A Marina D’Amelia, Gabriella Pinnarò, Eugenia Roccella, Roberta Tatafiore e Paola Tavella, che sono state femministe, chiediamo oggi, a più di trent’anni dall’epoca dei piccoli gruppi, di riformarne uno estemporaneo per parlare di famiglia: di famiglia simbolica e delle loro famiglie reali. Tutte, negli anni del femminismo, si sono sposate, qualcuna si è separata e quattro di loro hanno avuto figli. Marina D’Amelia e Gabriella Pinnarò insegnano all’Università, la prima storia moderna e la seconda scienza della comunicazione. La prima è studiosa della storia della maternità (il suo ultimo libro è “La mamma”, Laterza), la seconda si è occupata a lungo di mercato del lavoro, con attenzione particolare al tema dell’occupazione femminile. Paola Tavella, Roberta Tatafiore ed Eugenia Rocella sono giornaliste e saggiste. La Roccella, ex radicale, appena ventenne è stata segretaria del Movimento di liberazione della donna, e oggi è uno dei due portavoce del Dies Familiae del 12 maggio. Roberta Tatafiore ha lavorato a “Noi donne”, di cui è stata anche direttrice, e ha pubblicato diversi libri sul mercato del sesso. Paola Tavella, dopo quindici anni al Manifesto e dopo essere stata portavoce di Anna Finocchiaro alle Pari opportunità, scrive oggi su varie testate. Nel 2006, con Alessandra Di Pietro, ha pubblicato “Madri selvagge” (Einaudi Stile libero).

Pinnarò - Ripensando a quegli anni, non mi ricordo, almeno per quanto mi riguarda, di aver professato un odio drastico per la famiglia. Semmai mi opponevo al tipo di famiglia che avevamo ereditato: conservatrice, patriarcale, fissa, mentre intorno tutto cambiava velocemente. Erano gli anni del movimento degli studenti, della critica all’organizzazione del lavoro, dei primi grandi scioperi dopo il miracolo economico, e nasceva il movimento femminista, a Trento. La famiglia rimaneva invece quella di sempre e noi, con un certo delirio di onnipotenza, pensavamo di poterne disegnare un’altra, diversa e migliore, a nostra misura. Ma sono una che si è sposata a diciannove anni, anche se tale era l’imbarazzo per quel matrimonio, fatto in un momento in cui tutti parlavano di libero amore, che non solo non portavo la fede, ma a chi mi chiedeva se ero sposata rispondevo, con l’ansia di ridimensionare la cosa, che sì, lo ero , ma “solo civilmente”.

D’Amelia - Potremmo discutere per giorni sulle caratteristiche del femminismo, su quanto illuminismo, libertinismo, romanticismo c’erano, e ognuno potrebbe dire la sua. Del femminismo mi convinceva tutto ciò che mirava a una diversa qualità del rapporto uomodonna, all’idea che anche gli uomini si potessero prendere cura dell’altro, se ne potessero davvero sentire responsabili. E allora, nel momento in cui chiedi, come noi chiedevamo, una qualità diversa dei rapporti, chiedi pure al padre dei tuoi figli che faccia davvero il padre e si prenda davvero cura di loro, non solo in modo residuale. Erano queste le aspettative nelle nostre “nuove coppie”, da cui naturalmente si generavano elementi conflittuali, quando quelle aspettative le vedevi deluse.

Tatafiore - Se penso al nostro mondo di quegli anni, lo vedo popolato da irregolari. E’ irregolare, infatti, che ci si sposi ma ci si vergogni di dirlo. Ed è irregolare quello che io stessa ho fatto, sposandomi a Londra perché era uno dei paesi, con quelli scandinavi, nei quali non c’era la trascrizione automatica del matrimonio in Italia. Perché l’ho fatto, allora? Ma per far felice mia madre, naturalmente. Poi mi sono separata e ho convissuto per dieci anni con un altro uomo. Non ho voluto figli e non li ho fatti, e per questo mai mi sono sentita davvero “in famiglia”. Perché la famiglia, ne sono convinta, c’è se ci sono i figli. Oggi la vedo svuotata, inconsistente, evanescente. Quella in cui sono nata aveva le sue stravaganze, ma anche le sue regole, a cominciare dal fatto che si mangiava tutti insieme, a pranzo e a cena e la domenica in trattoria. Lo svuotamento della famiglia lo abbiamo in parte provocato anche noi femministe, ma poi ci si è messo di tutto: il mercato del lavoro, i grandi terremoti politici come la fine del comunismo, l’immigrazione. Se ci sono famiglie poco difese sono quelle degli immigrati, totalmente disgregate.

Pinnarò - Aggiungerei il fatto che, all’epoca del femminismo, era evidente la forte ostilità, a sinistra, nei confronti della famiglia e del ruolo che in essa aveva la donna. La quale era forza lavoro gratis, dato che faceva il lavoro di cura, quello che oggi chiameremmo di “supplenza” al welfare, ed era forza lavoro più malleabile, più facilmente licenziabile. Una parte della sinistra teorizzava apertamente che la famiglia, in quanto zattera di salvataggio e camera di compensazione per tutte le contraddizioni che si creano sul mercato del lavoro e nella società, andava eliminata, perché così il conflitto di classe sarebbe finalmente e pienamente esploso. A dirlo, negli anni Settanta, erano sociologi come Marzio Barbagli e Massimo Paci. In un seminario rimasto memorabile all’Istituto Gramsci, nel 1975, in contrasto con la visione di tipo “sovietico” che della famiglia aveva il Pci, un filosofo marxista, Umberto Cerroni, teorizzò che la dissoluzione delle funzioni della famiglia come “comunità domestica di allevamento, sostentamento ed educazione” sarebbe stata auspicabile, perché così si sarebbe privilegiato il “libero svolgimento affettivo”. In questo vedo però una differenza radicale con quello che le donne cominciavano a elaborare.

Roccella - Questo è un aspetto importantissimo. Un libro dell’inizio degli anni Ottanta, “Rifugio in un mondo senza cuore”, di Christopher Lasch, analizzava la “cultura dell’antifamiglia” e metteva in parallelo la socializzazione della produzione e quella della riproduzione. E’ lì il cuore del problema. La famiglia è, oltre che camera di compensazione, anche il primo nucleo di redistribuzione del redditto e delle politiche di solidarietà. Ma è soprattutto camera di compensazione tra individuo e stato, la necessaria cellula anarchica di protezione dell’individuo. Se gli togli la famiglia, l’individuo diventa niente altro che il perfetto consumatore, solo davanti al mercato e allo stato. Il caso di Terri Schiavo mostra l’invasività delle leggi in una zona che doveva rimanere anarchica, di ombra e di mediazione. Sul femminismo assassino della famiglia, direi che non l’ho mai vissuto come tale, ma come uno scombinamento dei rapporti e dei ruoli familiari e sessuali. Quando leggo che in Norvegia o in Svezia ci sono fino al sessanta per cento di madri single, con lo stato che fa da padre, mi chiedo se era davvero ciò che volevamo. Credo proprio di no. Volevamo l’intercambiabilità dei ruoli, la condivisione del lavoro di cura e la sua valorizzazione, ed è la battaglia che abbiamo perso, perché il lavoro di cura resta tuttora svalorizzato. Nel frattempo, abbiamo indebolito, se non vogliamo dire distrutto, la paternità.

D’Amelia - Mi pare invece che, nel senso comune, sia passato il fatto che un padre deve comportarsi in un modo partecipativo.

Roccella - Ma i modelli di virilità diffusi non sono certo modelli paterni. Il lavoro di cura continuiamo a non condividerlo, lo abbiamo semplicemente spostato su altre donne, le immigrate. E’ affare femminile, poco pregiato. Le statistiche dicono che il desiderio di maternità è inalterato da trent’anni, ma nulla ci dicono del desiderio di paternità.

Tavella - Prima di venire qui parlavo proprio di questo con un amico quarantenne, musicista, il quale mi diceva che lui di figli non ne vuole, vista l’esperienza di due componenti del suo gruppo. La donna che si mette con me, diceva, sa che faccio una certa vita e non può chiedermi di stare in casa o di occuparmi del bambino. Questa confessione mi ha dimostrato chiaramente come il disincentivo alla paternità, almeno per quei maschi, sia proprio nella richiesta di condivisione del lavoro di cura, e nel modo in cui cambia il rapporto con le loro donne che diventano madri. Io ho avuto due figli da due uomini diversi. Con il primo non ero sposata, con l’altro sì, poi abbiamo divorziato. In ogni caso, avere gli uomini fuori casa per me è stato molto semplificante. Dal momento che dei figli me ne occupavo io, almeno ho potuto organizzare le cose come volevo. Discuto con i padri, certo, ma sono io a decidere. Non c’è niente da fare, almeno nella mia esperienza. Gli uomini il lavoro di cura non lo condividono, e nelle situazioni in cui li costringi, con incredibili contrattazioni e marchingegni, loro lo odiano talmente tanto che alla fine al letto con te non ci vengono più. Un conto è se ti dicono che, visto che hanno vissuto da soli per anni e sanno caricare la lavatrice, continueranno graziosamente a farlo per te. Ma se, come accade a tante giovani donne che conosco, intraprendi una guerra per ottenere che un giorno sì e uno no sia lui ad alzarsi se il bambino piange o a occuparsi dei piatti, la coppia si divide, perché i maschi non fanno più l’amore con le femmine rivendicative. Magari hanno ragione, perché in quella guerra la donna diventa odiosa, rievoca la parte di sergente che c’è in ogni madre. Detto questo, la mia è una famiglia assai bizzarra. Il padre del mio primo figlio si è messo con un americano che a sua volta ha un figlio adottato, e con questa coppia gay ho un autentico, stretto legame familiare. E poi ho intorno a me un gruppo di amici, che non a caso si autodefiniscono “la family”, e che io sento come famiglia.

D’Amelia - Io, come Roberta, sono dell’idea che la famiglia c’è quando ci sono i figli e magari anche gli anziani. Non per un innamoramento verso le convenzioni, ma perché il piano dell’esperienza che tu fai come uomo e come donna, e il racconto di Paola lo conferma, è completamente diverso. E perché, quando ci sono i figli, entrano in gioco elementi, emozioni, forme di relazione molto diversi. Sentimenti, magari non tutti belli, come l’ira di un disaccordo nella coppia, oppure la rabbia del bambino che non accetta quello che gli vuoi far fare. Non a caso Paola considera con sollievo l’idea di decidere da sola, e l’ho pensato anche io, anche se non l’ho fatto. Perché famiglia è anche imparare a gestire le differenze e la diversa opinione su un singolo problema. Si deve per forza arrivare a un risultato positivo partendo dalla diversità, non si può rompere, ed è uno dei più grandi insegnamenti che la vita familiare ti può dare. Nemmeno io ho statistiche sul desiderio di paternità. Ma vedo finita l’indifferenza dei padri rispetto all’emozione dell’essere tali, anche se magari si manifesta nella forma un po’ patetica di quello che a sessant’anni scopre la sensazione fisica del bambino in braccio. Oggi, semmai, l’intercambiabilità che volevamo è diventata confusione. Sono più i padri che vogliono fare le mamme che i padri che vogliono fare i padri.

Tavella - I figli si fanno meno, secondo me, perché c’è un oscuramento del materno, il cui fenomeno speculare è l’oscuramento del maschile. Viviamo all’acme di tutta l’infelicità che l’emancipazione porta con sé. Ne parla Marina Terragni in un bel libro che sta per uscire, e che s’intitola “La scomparsa delle donne”. Per quanto mi riguarda, per un certo periodo ho fatto uno di quei lavori molto gratificanti che mi tenevano fuori casa tutto il giorno. Al ritorno, trovavo il figlio più piccolo addormentato davanti alla porta d’ingresso, e ho capito che non potevo continuare così. Le donne della mia età sanno che cosa significhi convincersi che per fare ciò che si vuole bisogna smettere di essere donna. Questa lontananza da se stesse, che vedo anche in tante giovani, fa rimandare la maternità. Poi, quando l’orologio biologico segna un’ora tarda, si realizza che la maternità della carne è l’unico luogo in cui puoi ancora affermare il femminile in modo “forte”. E allora ti fecondi artificialmente, parli di diritto al figlio, ti fai fare qualsiasi cosa.

Roccella - Vorrei tornare sul perché, come movimento femminista, non siamo state capaci di dare sufficiente valore al lavoro di cura. Mi colpì, durante un dibattito televisivo, una signora nigeriana che si stupiva perché noi lasciamo in mani estranee le cose “più preziose”, diceva così, il tuo genitore che sta morendo e i tuoi bambini. Qualcosa di prezioso ci sta sfuggendo, ma se non gli diamo valore noi, come possiamo pretendere che glielo diano gli uomini? Credo che questo dipenda da una mancanza iniziale dell’emancipazionismo, che il femminismo non ha saputo compensare. L’idea dei diritti dell’individuo non fa i conti con le donne, perché individuo è “ciò che non si divide”, mentre la donna per definizione è uno che diventa o ha la potenzialità di diventare due. Il concetto di cittadinanza e il lavoro sono stati costruiti sul corpo che non genera, e nell’agone politico hanno vinto il femminismo di stato e lo stato-padre nordeuropeo. A Roberta che non apprezza la difesa della “vecchia” famiglia, vorrei dire invece di non sottovalutare il problema della rivoluzione antropologica portata dalla tecnoscienza. Si sta tentando di ridisegnare l’umano a partire da un azzeramento dell’esperienza e di tutte le radici simboliche, storiche, corporee sperimentate in secoli e secoli. Difendere la famiglia, per me, significa difendere il luogo in cui questa esperienza, e in particolare l’esperienza femminile del materno, si esprime.